«Veramente eravamo sull'altopiano.»

«Eravamo?»

«Abbiamo finito gli scavi. Adesso è tutto al laboratorio, a Ciudad de Guatemala.»

«Quanti?»

«Ventitré. Pare che siano quasi tutti donne e bambini.»

«Brutta storia.»

«Veramente è anche più brutta.»

«Ti ascolto.»

Gli raccontai di Carlos e di Molly.

«Gesù, Brennan. Guardati il culo, mentre sei laggiù.»

«E la situazione sta peggiorando.»

«Continua.» Udii il rumore di un fiammifero, e poi di una boccata di fumo.

«La gendarmeria locale ritiene che ci sia un serial killer che agisce a Ciudad de Guatemala. E hanno richiesto il mio aiuto per un recupero.»

«E talenti locali non ce ne sono?»

«I resti si trovavano in una fossa biologica.»

«La specialità della nostra dottoressa.»

«Mi sono occupata di casi simili uno o due volte.»

«E come ha fatto la tua fama ad arrivare fino in Guatemala?»

«Non sono quel che si dice una sconosciuta, Ryan.»

«Hai spedito il curriculum vitae via Internet?»

Dovevo dirgli della figlia scomparsa dell'ambasciatore? No. Avevo garantito a Galiano la massima riservatezza.

«Un investigatore ha visto uno degli articoli che avevo scritto per "JFS". Forse la cosa ti sorprenderà, ma ci sono poliziotti che leggono riviste prive di paginoni centrali.»

Una lunga boccata di fumo.

«Inoltre, c'è la possibilità di una pista canadese.»

Come sempre mi accadeva con Ryan, mi sembrava di dover giustificare ciò che facevo. E come sempre la cosa mi rendeva sgarbata.

«E allora?»

«Oggi abbiamo recuperato uno scheletro.»

«E allora?»

«Non sono sicura.»

Colse qualcosa nel mio tono di voce.

«Che cosa ti rode, Brennan?»

«Non sono sicura.»

«La vittima corrisponde al profilo?»

«Non ne sono sicura.»

«Non hai fatto un esame preliminare del sito?»

Come facevo a spiegargli? Potevo mai dirgli che avevo lo stomaco sottosopra?

«No.» Di nuovo, quel bruciante senso di colpa. «E probabilmente non lo farò mai.»

«Eh?»

«Il procuratore distrettuale ha confiscato le ossa.»

«Fammi capire. Questi cafoni ti lasciano fare tutto il lavoro sporco e poi il procuratore distrettuale compila un foglio e se ne va col bottino?»

«La polizia non aveva scelta.»

«Ma non avevano anche loro qualche documento?»

«È un sistema diverso dal nostro. Non ho indagato.» La mia voce distillò ghiaccioli.

«Probabilmente è solo un piccolo intoppo. Il coroner ti chiamerà domani mattina appena ti svegli.»

«Non credo.»

«Perché?»

Cercai un modo diplomatico per spiegargli l'atteggiamento di Díaz. «Diciamo che esiste una certa resistenza all'idea di un aiuto esterno.»

«E che mi dici della pista canadese?»

Ripensai al cranio.

«Dubbia. Ma non ne sono certa.»

«Gesù, Brennan...»

«Ti prego, non dirlo.»

Lo disse.

«Ma come fai a cacciarti sempre in queste cose complicate?»

«Mi hanno chiesto di recuperare delle ossa da un pozzo nero» replicai secca. «E questo è quello che ho fatto.»

«Chi è l'idiota responsabile delle indagini?»

«Che differenza fa?»

«Potrei nominare il tipo coglione dell'anno.»

«Tenente Bartolomé Galiano.»

«SSIC?»

«Sì.»

«Santa merda.»

«Cosa?»

«Faccia da bulldog, occhi da vacca frisona?»

«Sono castani.»

«Il Pipistrello.» Fu quasi un urlo di gioia.

«Non pensavo più a lui da anni.»

«Ryan, non ci sto capendo niente.»

«Bat Pipistrello Galiano.»

In effetti Galiano mi aveva detto di avere trascorso un certo periodo in Canada.

«Conosci Galiano?»

«Eravamo compagni di università.»

«Galiano ha frequentato la Saint Francis Xavier?»

Saint Francis Xavier, Antigonish, Nova Scotia. La piccola città universitaria era stata teatro delle imprese più sensazionali del giovane Ryan. Poi un biker cocainomane gli aveva trapassato il collo con una lama di coltello mancando per un pelo la carotide. E dopo molti punti e molta introspezione, Ryan aveva deciso di passare dall'altra parte, lasciando i bar e le sbronze per la divisa. E della scelta non si era più pentito.

«Durante il mio ultimo anno, il Pipistrello viveva praticamente all'università. Dopo la laurea, io sono entrato nella SQ. Lui ha finito il semestre successivo, ed è tornato in Guatemala a fare il poliziotto. Non ci sentiamo da anni.»

«Perché Pipistrello?»

«Non è importante. Ma non prendere impegni. Ti occuperai di quelle ossa prima che la settimana sia finita.»

«Avrei dovuto rifiutarmi di consegnarle.»

«Un grìngo che si oppone a un funzionario locale in un Paese noto per massacrare tutti gli oppositori... Meglio riflettere bene prima di agire.»

«Avrei dovuto esaminarle sul posto.»

«Ma non erano coperte di merda?»

«Avrei potuto pulirle, no?»

«E magari fare più male che bene? No, Brennan, non perderei il sonno su questa cosa. Anche perché sei andata lì per un altro motivo.»

Ma io ovviamente il sonno lo persi, e mi girai e rigirai per tutta la notte, prigioniera delle immagini accumulate durante la giornata. In strada, il rumore del traffico si era ridotto a un brusio, e poi al suono di qualche rara automobile. Nella stanza accanto, un televisore alternava i ritmi lenti del baseball, un talk show, il silenzio.

Continuai a rimproverare me stessa per non aver esaminato le ossa. La prima impressione avuta sul cranio era corretta? Le fotografìe di Xicay sarebbero state sufficienti a stabilire un profilo biologico? Avrei più rivisto quelle ossa? Che cosa nascondeva l'ostilità di Díaz?

E poi ero preoccupata anche per la mia lontananza da casa, geografica e culturale. Pur conoscendo a grandi linee il sistema legale guatemalteco, non sapevo nulla delle lotte intestine fra giurisdizioni e delle vicende personali che avrebbero potuto ostacolare le indagini. Conoscevo la scena, ma non gli attori.

I miei timori, tuttavia, andavano oltre le complicazioni del lavoro di polizia. In Guatemala ero un'estranea, e avevo una conoscenza solo superficiale della vera essenza di quel Paese. Sapevo poco delle persone e delle loro preferenze in fatto di auto, professione, quartieri, dentifricio. Non sapevo come consideravano la legge e le istituzioni. Non conoscevo quello che amavano, quello che non amavano, quello in cui credevano, quello con cui si divertivano. Non conoscevo le loro motivazioni per uccidere.

Non capivo i loro soprannomi.

Pipistrello? Bat? Bat Galiano? Bartolomé Galiano?

E su questo finalmente mi addormentai.

 

Il sabato mattina iniziò come un replay del giorno precedente. Galiano venne a prendermi con gli stessi occhiali e un altro caffè, ma questa volta raggiungemmo in silenzio la centrale di polizia, dove fui condotta in un ufficio del secondo piano. Era una stanza più grande di quella dove ci eravamo riuniti due giorni prima, ma decorata con lo stesso stile. Pareti grigio muco. Pavimento verde bile. Luci al neon. Scrivanie di legno coperte di tagli. Tubature coperte di nastro isolante. Tavolini pieghevoli istituzionali. Copie di «Nouveau Cop».

Hernández stava spostando su un carrello la pila di scatoloni che ingombrava un lato della stanza. Due uomini fissavano dei fogli sulle bacheche della parete di sinistra. Uno era minuto, con i capelli neri e ricci lucidi di brillantina. L'altro era alto quasi due metri e aveva le spalle larghe quanto il Belize. Quando entrammo si voltarono entrambi.

Galiano mi presentò la coppia.

Mi sentii scrutare da due paia di occhi. E nessuno sembrò turbato da ciò che vedeva.

Ma che cosa vedevano quegli occhi? Un intruso? Un poliziotto? Un americano? Una donna?

'Fanculo. Non avrei fatto nessuno sforzo per conquistarli.

Feci un cenno con la testa.

Loro fecero altrettanto.

«Le foto ci sono già?» domandò Galiano.

«Xicay dice che saranno pronte per le dieci» rispose Hernández, spingendo il carrello verso di noi.

«Sto portando questa roba nel seminterrato» borbottò, cercando di mantenere il carico in equilibrio con la mano destra. «Vuoi i sacchi?»

«Sì.»

Hernández ci passò accanto, il viso viola, la camicia bagnata, proprio come il giorno prima davanti alla fossa biologica.

«Questa stanza era una specie di deposito» mi spiegò Galiano. «La sto facendo liberare.»

«Task force?»

«Non esattamente.» Mi indicò una delle scrivanie. «Che cosa le serve?»

«Lo scheletro» gli risposi, gettando il mio zainetto sul ripiano.

«Bene.»

I due uomini finirono con la prima bacheca e passarono a quella successiva. Galiano e io ci avvicinammo. Davanti a noi c'era una cartina di Ciudad de Guatemala. Galiano indicò un punto nel quadrante sud-est.

«Numero uno. Claudia De la Alda viveva qui.»

Estrasse una bandierina rossa da una piccola scatola posata sulla mensola della bacheca e la conficcò sulla cartina. Poi ne aggiunse una gialla, subito accanto.

«Claudia De la Alda aveva diciotto anni. Nessun precedente penale, niente storie di droga, nessuna fuga da casa. Dedicava molto del suo tempo a lavorare con i bambini handicappati e aiutava in chiesa. Lo scorso 14 luglio ha lasciato la famiglia per andare a lavorare e da allora nessuno l'ha più vista.»

«Fidanzato?» domandai.

«Ha un alibi. Non è sospettato.»

Galiano conficcò una bandierina blu sulla cartina.

«Claudia lavorava al Museo Ixchel.»

Era un museo privato dedicato alla cultura maya. L'avevo visitato e ricordavo che aveva vagamente l'aspetto di un tempio maya.

«Numero due. Lucy Gerardi. Diciassette anni. Studentessa alla Universidad de San Carlos.»

Aggiunse una seconda bandierina blu.

«Anche Lucy Gerardi non aveva precedenti, e viveva in famiglia. Brava studentessa. A parte una irrilevante vita sociale, pare fosse una studentessa di college come tutte le altre.»

«Come mai nessun amico?»

«Il padre la marcava stretta.»

Galiano spostò il dito su una stradina tra il Museo Ixchel e l'ambasciata americana.

«Lucy viveva qui.»

Aggiunse una seconda bandierina rossa.

«L'ultima volta è stata vista all'Orto Botanico...»

Puntò una bandierina gialla in uno spazio verde all'incrocio tra Ruta 6 e Avenida la Reforma.

«... il 5 gennaio.»

Il dito di Galiano indicò Calle 10 e poi Avenida la Reforma 3.

«Conosce la Zona Viva?»

Una fitta di dolore. Molly e io avevamo mangiato in un caffè della Zona Viva il giorno prima che io partissi per Chupan Ya.

Concentrati, Brennan.

«È un piccolo quartiere di alberghi costosi, ristoranti, e locali notturni.»

«Bene. Numero tre. Patricia Eduardo. Diciannove anni. Viveva a pochi isolati da qui.»

Terza bandierina rossa.

«Patricia Eduardo ha salutato gli amici al Café San Felipe la sera del 29 ottobre, e non è mai arrivata a casa.»

Bandierina gialla.

«Lavorava all'Hospital Centro Médico.»

Una bandierina blu segnò l'incrocio tra Avenida 6 e Calle 9, a pochi isolati dal Museo Ixchel.

«Stessa storia: vita irreprensibile, fidanzato candidato alla beatificazione. Trascorreva gran parte del tempo libero con i suoi cavalli. Era una buona cavallerizza.»

Galiano indicò un punto tra le abitazioni di Lucy Gerardi e Patricia Eduardo.

«La persona scomparsa numero quattro, Chantale Specter, viveva qui.»

Bandierina rossa.

«Chantale stava frequentando una scuola privata femminile...»

Bandierina blu.

«... ma era appena tornata da un soggiorno in Canada.»

«Che cosa ci era andata a fare?»

Galiano ebbe un attimo di esitazione. «Un qualche corso di specializzazione. Chantale l'ultima volta è stata vista a casa sua.»

«Da chi?»

«Dalla madre.»

«Entrambi i genitori sono stati indagati?»

«È difficile svolgere indagini su un diplomatico straniero.»

«Esiste motivo per sospettare di qualcosa?»

«Non ne abbiamo ancora trovati. Bene. Ricapitolando: sappiamo dove vivevano tutte le ragazze.»

Galiano toccò le bandierine rosse.

«Sappiamo dove lavoravano o andavano a scuola.»

Bandierine blu.

«Sappiamo dove sono state viste l'ultima volta.»

Bandierine gialle.

Fissai i punti segnati dalle bandierine e trovai almeno una risposta. La scarsa conoscenza che avevo di Ciudad de Guatemala era tuttavia sufficiente per capire che Claudia De la Alda, Lucy Gerardi, Patricia Eduardo e Chantale Specter provenivano dalla zona ricca della città. Il loro era un mondo di vie tranquille e di prati rasati, senza droga né prostituzione. Diversamente dai poveri e dai barboni, diversamente dalle vittime di Chupan Ya, o dagli orfani dipendenti dalla colla di Parque Concordia, quelle ragazze avevano potere. Erano scomparse da famiglie che avevano voce in capitolo e si sarebbe fatto tutto il possibile per ritrovarle.

Ma perché interessarsi ai resti di un cadavere ritrovato nel pozzo nero di una pensione fatiscente?

«Che cosa c'entra la Pensión Paraíso?» domandai.

Di nuovo, un attimo di esitazione. Poi: «Non bisogna lasciare niente di intentato».

Mi voltai verso Galiano. Il suo viso era inespressivo. Attesi. Non aggiunse altro.

«Ha intenzione di scoprire tutte le carte, o prima dobbiamo eseguire qualche complicato pas de deux

«Che cosa vuol dire?»

«Faccia come le pare, Pipistrello.» Mi voltai per andarmene.

Galiano mi lanciò un'occhiata penetrante, ma non disse nulla. Poi la sua mano si chiuse sul mio braccio.

«D'accordo. Ma niente deve uscire da questa stanza.»

«In genere mi piace discutere i miei casi al bar, e chiedere a tutti che cosa ne pensano.»

Galiano lasciò la presa e si passò una mano tra i capelli. Poi i suoi intensi occhi castani si incollarono ai miei.

«Diciotto mesi fa Chantale Specter è stata arrestata per possesso di cocaina.»

«Per uso personale?»

«La cosa non è chiara. I genitori hanno aperto il portafoglio e la ragazza è stata rilasciata senza test. Ma i suoi amici erano positivi.»

«Spaccio?»

«Probabilmente no. L'estate scorsa l'hanno beccata di nuovo. Stessa storia. La polizia ha fatto irruzione in un albergo di quart'ordine dove si stava svolgendo un droga-party. Chantale è finita nella rete. Poco dopo, il paparino l'ha spedita fuori per disintossicarsi e questo spiega il viaggio in Canada. È ricomparsa a Natale, ha ripreso la scuola in gennaio, ed è scomparsa dopo una settimana. L'ambasciatore ha cercato di organizzare le ricerche per conto suo, ma alla fine ha ceduto e ha denunciato la scomparsa.»

Galiano spostò il dito nel labirinto di strade che formano la città vecchia.

«I due arresti di Chantale sono stati effettuati all'interno della Zona Uno.»

«Ci sono ragazzi che attraversano fasi di ribellione» dissi. «Probabilmente è rientrata a casa, ha litigato con il padre, e ha preso di nuovo il volo.»

«Per quattro mesi?»

«Potrebbe essere una coincidenza. Non corrisponde al profilo.»

«Lucy Gerardi è scomparsa il 5 gennaio. Dieci giorni dopo è toccato a Chantale Specter.»

Galiano si voltò verso di me.

«E sembra che Lucy e Chantale fossero molto amiche.»

 

6

 

Le fotografìe scattate sul luogo di un delitto offrono una facile prospettiva sui segreti di persone altrimenti sconosciute. Diversamente dalle immagini artistiche, in cui luce e soggetti concorrono a creare momenti di bellezza, le fotografie dei delitti hanno lo scopo di fissare una realtà cruda e disadorna nei suoi dettagli più espliciti.

Osservare queste immagini è sempre un'esperienza dolorosa e deprimente.

Una finestra divelta. Una cucina macchiata di sangue. Una donna riversa sul letto, il viso coperto dalle mutandine a brandelli. Il corpo gonfio di un bambino gettato in un bagagliaio di automobile. Orrori rivisitati. Attimi dopo. Ore dopo. Giorni dopo.

A volte anche mesi dopo.

Alle nove e quaranta Xicay portò le fotografie della Pensión Paraíso. Data l'impossibilità di analizzare le ossa, quelle immagini erano la mia unica speranza di poter ricostruire il profilo della vittima con sufficiente precisione, o forse di collegare lo scheletro della fossa biologica a una delle ragazze scomparse.

Aprii la prima busta con un certo timore, ma ansiosa di sapere quanti particolari anatomici si erano conservati.

O viceversa quanti erano andati perduti.

Il vicolo.

La Pensión Paraíso.

La squallida oasi sul retro dell'edificio.

Studiai le diverse inquadrature della fossa biologica prima e dopo il sollevamento dei chiusini; prima, durante e dopo lo svuotamento. Nell'ultima immagine, le ombre allungavano sulla cisterna vuota le loro dita nodose.

Posai quella serie e passai a un'altra busta.

La prima immagine mostrava il mio posteriore rivolto verso il cielo sul bordo della cisterna. Sulla seconda, l'osso di un avambraccio posato sul telo all'interno del sacco mortuario. Non riuscii a distinguere nessun dettaglio utile nemmeno con la lente di ingrandimento. Posai lo strumento e proseguii.

Sette scatti dopo, trovai un primo piano dell'ulna. Con l'aiuto della lente esaminai la diafisi millimetro dopo millimetro, studiando ogni cresta e ogni dosso. Proprio quando stavo per passare oltre, notai una linea sottile come un capello sull'estremità che si articolava nel polso.

«Guardi qui.»

Galiano prese la lente e si chinò sull'immagine. Gli indicai la linea con la punta di una penna.

«È il residuo di una linea epifilaria.»

«¡Ay, Dios!» esclamò Galiano senza alzare lo sguardo. «Sarebbe a dire?»

«Sarebbe a dire che l'epifisi stava fondendo all'estremità della diafisi.»

«Il che significa?»

«Significa giovane.»

«Quanto giovane?»

«Probabilmente tardo adolescente.»

Galiano sollevò il busto.

«Muy bueno, dottoressa Brennan.»

La serie relativa al cranio arrivò con la terza busta. Mentre analizzavo un'immagine dopo l'altra, mi si chiuse lo stomaco, esattamente com'era successo all'interno della fossa biologica. Xicay aveva immortalato il cranio da più di un metro e mezzo, e la distanza, unita alla melma e alla penombra, oscurava qualsiasi caratteristica. Nemmeno la lente d'ingrandimento riuscì ad aiutarmi.

Scoraggiata, terminai la busta numero tre e passai alle successive. Una dopo l'altra, le diverse parti del corpo si allineavano sul telo bianco. Le epifisi in fusione su diverse ossa lunghe confermavano la fascia di età indicata dall'ulna.

Xicay aveva scattato almeno sei fotografie del bacino. I tessuti molli tenevano ancora insieme le tre parti, e questo mi permise di notare lo scavo a forma di cuore. Le ossa pubiche erano lunghe, e si univano in alto formando un angolo ottuso sotto-pubico.

Passai alle inquadrature laterali.

Incisura ischiatica ampia e poco profonda.

«Femmina» decretai.

«Mi faccia vedere.» Galiano tornò al mio tavolo.

Allargai le foto sul ripiano e illustrai le varie caratteristiche. Galiano mi ascoltò in silenzio.

Finita la spiegazione, mentre radunavo le fotografie, mi cadde l'occhio su alcuni strani frammenti depositati sulla superficie ventrale dell'ala iliaca. Sollevai l'immagine e la osservai con la lente di ingrandimento. Galiano mi osservava.

Schegge di denti? Particelle di vegetazione? Ghiaia? I minuscoli frammenti avevano un'aria familiare, ma con tutta la buona volontà, non riuscii a riconoscerli.

«Che cosa sono?» domandò Galiano.

«Non ne sono sicura. Forse solo sporcizia.»

Riposi le foto nella loro busta e passai a un'altra serie.

Ossa del piede. Ossa della mano. Coste.

Galiano fu richiamato nel suo ufficio. I due uomini continuarono a occuparsi delle bacheche.

Sterno. Vertebre.

Galiano tornò.

«Dove diavolo è finito Hernández?»

Nessuna risposta. Dietro di me immaginai due scrollate di spalle.

La schiena cominciava a dolermi. Allungai le braccia, mi piegai all'indietro, poi di fianco.

Quando ripresi la mia ispezione, il miracolo.

Mentre sovrintendevo al prosciugamento della cisterna, Xicay era tornato sul cranio, e le sue ultime fotografìe erano una serie di inquadrature superiori, inferiori, laterali e frontali scattate da una trentina di centimetri. E, malgrado la melma, erano immagini molto chiare.

«Queste sono buone.»

Galiano si avvicinò immediatamente. Gli indicai i lineamenti sull'inquadratura frontale.

«Orbite arrotondate. Zigomi larghi.»

Passai a un'immagine della base del cranio e indicai le ossa zigomatiche.

«Vede come si allargano gli zigomi?»

Galiano annuì.

«Il cranio è corto in senso trasversale, ma è largo nel senso frontale.»

«Si potrebbe dire globulare.»

«Ben detto.» Indicai il palato. «Forma parabolica. Peccato che non ci siano gli incisivi.»

«Perché?»

«Gli incisivi a pala possono indicare la razza.»

«A pala?»

«Smalto scavato sulla superficie linguale, con bordo rialzato ai lati. Un po' come una pala da carbone.»

Presi un'inquadratura laterale. E notai il ponte nasale basso e il profilo appiattito.

«Che cosa pensa?» domandò Galiano.

«Razza mongoloide» dissi, ripensando alla rapida occhiata che avevo dato alle ossa al momento del ritrovamento e confrontandola mentalmente con le fotografie che avevo davanti.

Galiano mi guardò inespressivo.

«Asiatica.»

«Cinese, giapponese, vietnamita?»

«Per esempio. Oppure qualcuno i cui antenati venivano dall'Asia. I nativi americani...»

«Vuol dire che si tratta di vecchie ossa indie?»

«No. Queste ossa sono decisamente recenti.»

Il tenente rifletté qualche secondo. Poi chiese: «Gli incisivi sono caduti in seguito a un trauma?».

Sapevo a che cosa stava pensando. Spesso i denti vengono distrutti per impedire l'identificazione. Ma non era quello il caso. Scossi la testa.

«Gli incisivi hanno un'unica radice. Quando i tessuti molli si decompongono, non c'è più niente a trattenerli. Più probabilmente, i denti di questa ragazza sono caduti da soli.»

«E dove sono finiti?»

«Potrebbero essere filtrati fuori dalla fossa biologica. O forse sono ancora incastrati da qualche parte all'interno della cisterna.»

«Ritrovarli sarebbe utile?»

«Certamente. Queste caratteristiche sono solo indicative» dissi puntando il dito sulla foto.

«Quindi chi è la sconosciuta della fossa biologica?»

«Femmina, probabilmente tardo adolescente, forse di razza mongoloide.»

Dietro gli intensi occhi castani immaginai un nugolo di neuroni prendere fuoco.

«Se non sbaglio, gran parte dei guatemaltechi hanno tratti mongoloidi, no?»

«Sì, molti hanno tratti mongoloidi» confermai.

«Ma non molti canadesi.»

«Giusto i nativi americani, gli immigrati asiatici, e i loro discendenti.»

Galiano si chiuse in un lungo silenzio. Poi disse: «Quindi è molto probabile che non ci troviamo di fronte a Chantale Specter».

Stavo per rispondere quando Hernández rientrò nella stanza con il suo carrello. Gli scatoloni erano stati sostituiti da due sacchi di plastica e da una valigetta nera.

«Dove diavolo sei stato?» domandò Galiano al collega.

«Gli stronzi non volevano saperne di mollare la loro preziosissima luce. Neanche fossero i gioielli della Corona.» La voce di Hernández suonò come un tritarifiuti intasato. «Questa roba dove vuoi che la metta?»

Galiano indicò due tavolini pieghevoli lungo la parete di destra. Hernández scaricò il materiale e posò il carrello accanto agli ultimi scatoloni.

«La prossima volta che c'è da portare via qualcosa, non chiamate me.» Prese un quadratone giallo dalla tasca e si deterse la fronte. «Quella roba pesa da maledetti.»

Hernández si infilò il fazzoletto nella tasca posteriore, e io osservai un angolo del quadratone giallo uscire dalla stanza.

«Diamo un'occhiata alle foto» mi disse Galiano. «Sono quasi tutte immagini di vita familiare. Una sola viene dall'ambasciata.»

Lo seguii, anche se non avevo alcun bisogno di vedere il campionario. Avevo lavorato altre volte sugli omicidi seriali, e sapevo esattamente che cosa mi aspettava. Facce. Ostili, felici, perplesse, addormentate. Giovani o vecchie, maschili o femminili, eleganti o trasandate, belle o poco attraenti, ciascuna immortalata in un preciso momento, ignara della futura calamità.

Dopo una prima occhiata, pensai a Ted Bundy e ai gusti del presunto assassino. Le quattro ragazze avevano tutte capelli lunghi e diritti, con la riga in mezzo. Ma qui le somiglianze finivano.

Claudia De la Alda non era stata baciata dalla dea della bellezza. Era una ragazza spigolosa, con il naso largo e gli occhi distanti non più grossi di due olive. In ciascuno dei tre scatti indossava gonna nera e camicetta color pastello abbottonata fino al mento. Al collo aveva un crocifisso in argento che scendeva sul petto abbondante.

Lucy Gerardi aveva capelli neri e lucenti, occhi azzurri, mento e naso delicati. Una fotografia scolastica la mostrava in giacca azzurra e camicetta candida. In un'altra, scattata a casa, indossava un prendisole giallo e teneva in grembo uno schnauzer. Una crocetta d'oro scintillava nell'incavo alla base della gola.

Benché fosse la più vecchia della quattro, Patricia Eduardo non dimostrava più di quindici anni. Una foto la immortalava fieramente in groppa a un appaloosa, occhi neri luminosi, cappellino derby, una mano sulle redini, l'altra sul ginocchio. In un'altra, posava accanto al cavallo, fissando l'obiettivo con aria compresa. Come le altre, portava una catenina con un crocifisso e non era truccata.

Mentre Claudia De la Alda, Lucy Gerardi e Patricia Eduardo sembravano far parte dell'ordine di Nostra Signora della Castità, Chantale Specter ricordava più un'adepta della Chiesa della Lussuria. Nella foto segnaletica, la figlia dell'ambasciatore canadese esibiva canotta ombelicale e jeans a pelle, capelli con mèche bionde e occhi nero vampiro.

Di tutt'altro genere era il ritratto fornito dai canali ufficiali dell'ambasciata. Chantale posava insieme con mamma e paparino su un divano stile Regina Anna. Indossava collant, scarpe décolleté e vestito in cotone bianco. Niente numero, niente mèche, niente occhi alla Bela Lugosi.

Mentre scrutavo quei visi, sentii un peso posarsi sul cuore. Possibile che quelle quattro ragazze fossero morte? Avevamo forse ripescato una di loro dalla cisterna della Pensión Paraíso? A Ciudad de Guatemala si aggirava uno psicopatico in cerca di prede? Quel raccoglitore si sarebbe arricchito di altre fotografie?

«Non sembra una che venderebbe il culo per una dose.» Galiano si riferiva alla fotografia di Chantale Specter.

«Nessuna di loro lo sembra.»

«C'è qualcuno che corrisponde al suo profilo?»

«Tutte. Per Chantale Specter la razza non corrisponde, ma è un parametro su cui ho ancora molti dubbi. Mi sentirei più sicura se potessi procedere con le misurazioni e inserirle in una banca dati per il confronto. E comunque, anche così, stabilire la razza è sempre molto arduo.»

Alla mie spalle, il gigante cominciò a trasferire gli scatoloni sul carrello.

«Che cosa mi dice dei tempi?» domandai.

«Claudia De la Alda è stata vista per l'ultima volta a luglio. La manutenzione alla fossa biologica risale al mese di agosto.»

«Essere visti per l'ultima volta non equivale a una data di morte.»

«No, certo» concordò Galiano.

«Sempre ammesso che sia morta.»

«Patricia Eduardo è scomparsa in ottobre, Lucy Gerardi e Chantale Specter a gennaio.»

«Nessuna delle scomparse indossava jeans e camicetta a fiori?»

«Non secondo quanto riferito dai testimoni che le hanno viste per l'ultima volta.» Galiano indicò una pila di cartelline. «I fascicoli sono lì.»

«Prima vorrei dare un'occhiata ai vestiti» dissi.

Galiano mi seguì fino ai tavolini e mi osservò posare sul pavimento i sacchi, prendere un telo di plastica dallo zainetto, stenderlo sui ripiani.

«Mi serve dell'acqua» dissi mentre sollevavo il primo sacco.

Galiano mi guardò con aria interrogativa.

«Per pulire le etichette.»

Galiano girò la richiesta a uno dei due investigatori presenti nella stanza.

Infilai i guanti di lattice, disfai il nodo e cominciai a estrarre abiti sudici. Mentre spiegavo i singoli capi la stanza fu invasa da un tanfo terribile.

L'investigatore Brillantina tornò con l'acqua e poi uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

«Gesù santo, puzzano come una fogna.»

«E come mai secondo lei?» domandai.

Jeans. Camicetta. Reggiseno verde menta. Slip verde menta con roselline rosse. Calze blu. Mocassini.

Un brivido freddo. Mia sorella e io avevamo avuto i nostri primi mocassini l'autunno in cui avrei iniziato a frequentare la quinta. Lentamente, prese forma uno spaventapasseri, senza testa né mani, piatto e bagnato. Quando ebbi finito di svuotare il sacchetto, procedetti all'esame minuzioso di ogni capo.

I jeans erano blu scuro, e non avevano marca. La stoffa era in buone condizioni, ma i pantaloni si erano smembrati in diverse parti.

Controllai le tasche. Vuote, come previsto. Bagnai l'etichetta e la strofinai delicatamente. La scritta era così sbiadita da non poter essere decifrata. Le gambe dei pantaloni erano arrotolate, ma stimai che la taglia potesse essere simile alla mia, una trentotto o quaranta da donna. Galiano annotò le varie informazioni sul suo taccuino a spirale.

La camicetta non aveva etichetta. Per il momento la lasciai abbottonata.

«Ferite da taglio?» domandò Galiano mentre ispezionavo uno dei molti difetti del tessuto.

«Forma irregolare, margini sfilacciati» dissi. «No, è solo stoffa strappata.»

Il reggiseno era una seconda, coppa B, le mutandine una prima. Non c'era marca visibile su nessuno dei due.

«Strano come i jeans siano così malandati, mentre tutto il resto è quasi intatto» osservò Galiano.

«Le fibre naturali sono così. Oggi ci sono, ma domani non più.»

Il tenente attese che continuassi.

«I jeans probabilmente erano cuciti con filo di cotone, ma la nostra signorina aveva decisamente un debole per il sintetico.»

«Principessina Nylon.»

«Forse non saranno il massimo, ma i capi sintetici almeno non amano il processo di decomposizione.»

«La chimica ci regala capi indistruttibili.»

Mentre procedevo con il mio esame, un rivolo di melma marrone colò dalla gamba destra dei jeans. A parte qualche scarafaggio morto, non trovai altro.

Srotolai la sinistra.

«Posso avere il Luma Lite?» domandai.

La valigetta che ci avevano prestato di malavoglia conteneva una fonte luminosa sotto cui impronte, capelli, fibre, macchie di sperma e di sostanze stupefacenti diventavano fluorescenti.

Galiano estrasse una scatola nera e un paio di occhialini scuri dalla valigetta portata da Hernández. Mentre il tenente cercava una presa e spegneva la luce principale, io mi infilai gli occhialini di plastica. Quindi premetti l'interruttore dello strumento e passai il Luma Lite sui vestiti. Il fascio di luce non evidenziò niente finché non arrivai all'orlo della gamba sinistra dei pantaloni, che avevo srotolato poco prima. Una serie di filamenti brillarono come i fuochi d'artificio del 4 luglio.

«Cosa diavolo c'è lì sopra?» Mi sentii il fiato di Galiano sul braccio.

Gli passai gli occhialini, ripuntai la luce sul tessuto e indietreggiai di un passo.

«¡Puchica!» Wow!

Il tenente osservò i jeans per un minuto buono, poi si allontanò dal tavolino.

«Capelli?»

«Possibile.»

«O forse sono peli di animale?»

«Questa è una domanda per gli uomini della Scientifica. Ma intanto io comincerei a verificare se nelle famiglie ci sono animali domestici.»

«Figlio di un cane.»

Presi una serie di flaconcini in plastica dallo zainetto, ne etichettai uno, raccolsi i filamenti con un paio di pinzette e li sigillai nel flacone. Quindi ripassai con il Luma Lite ogni millimetro di tessuto. Ma i fuochi d'artificio erano finiti.

«Luce.»

Galiano andò all'interruttore.

Dopo aver registrato sugli altri flaconcini data, ora e posizione, vi inserii diversi campioni di melma asportata dai vari indumenti, tappai, sigillai con nastro adesivo e sigiai. Calzino destro, esterno. Calzino destro, interno. Calzino sinistro. Orlo gamba destra pantalone. Orlo gamba sinistra pantalone. Scarpa destra, interno. Scarpa destra, suola. Dieci minuti dopo ero pronta per la camicetta.

«Può spegnere la luce, per favore?»

Galiano eseguì.

I bottoni erano comuni bottoni di plastica. Li illuminai uno a uno con il Luma Lite. Nessuna impronta.

«Può riaccendere.»

La stanza si illuminò; io sfilai ciascun bottone dal suo occhiello e aprii il davanti della camicetta.

Ciò che vidi era così piccolo che mi stava quasi per sfuggire tra le cuciture dell'ascella destra.

Presi la lente di ingrandimento.

Oh, no.

Inspirai a fondo, rilassai le mani e rovesciai la manica.

Vidi qualcos'altro, dieci centimetri sotto l'ascella.

E ancora qualcosa a un paio di centimetri dalla prima particella.

«Figlio di puttana.»

«Che c'è?» Galiano mi stava fissando.

Tornai al tavolo delle fotografie, svuotai tutte le buste finché non trovai la serie giusta. Scorsi rapidamente le immagini, mi fermai al primo piano del bacino e analizzai con la lente i misteriosi frammenti.

Dio santo.

Senza quasi osare respirare, esaminai ogni millimetro di osso, poi passai alle immagini successive. In tutto ne individuai sette.

Mi sentii invadere dalla rabbia. E dal dolore. E da tutte le emozioni che avevo provato nel pozzo di Chupan Ya.

«Non so chi sia questa ragazza» dissi. «Ma forse so perché è morta.»

 

7

 

«La ascolto» disse Galiano.

«Era incinta.»

«Incinta?»

Gli passai la prima foto del bacino.

«La particella che vede è un frammento del cranio di un feto.»

Gli passai altre stampe.

«Anche questa. E nella camicetta ho trovato le ossa di un feto.»

«Mi faccia vedere.»

Tornai al tavolino, e indicai tre frammenti non più grossi di un'unghia.

«¡Hijo de puta!» Figlio di puttana.

L'intensità della sua reazione mi sorprese, e non replicai.

«Incinta di quanto?»

«Non posso dirlo con certezza. Vorrei controllare i frammenti al microscopio stereoscopico.»

«Fottuto figlio di puttana.»

«Già.»

Da dietro la porta chiusa arrivarono delle voci maschili, seguite da una serie di risate. Le battute degli investigatori sembrarono un'insensibile intrusione.

«Quindi, chi diavolo è questa ragazza?» La voce di Galiano suonò un tono più bassa del solito.

«Un'adolescente con un terribile segreto.»

«E il giovane paparino non aveva nessuna voglia di mettere su famiglia.»

«Forse il paparino una famiglia ce l'aveva già.»

«Oppure la gravidanza potrebbe essere una coincidenza.»

«Forse. Se si tratta di un serial killer, le sue vittime potrebbero essere casuali.»

Le voci in corridoio si allontanarono e calò il silenzio.

«È ora di fare un'altra visita al gestore della pensione e consorte» disse Galiano.

«Non sarebbe una cattiva idea controllare le cliniche ostetriche e i consultori dei dintorni. La ragazza poteva essere in lista per un aborto.»

«Qui siamo in Guatemala.»

«Allora per una visita ginecologica.»

«Bene.»

«È meglio scattare qualche foto, prima che la metta via.» Indicai la camicetta.

Xicay arrivò nel giro di pochi minuti. Gli passai il mio righello ABFO, e gli mostrai le foto. Mentre Xicay scattava, Galiano mi fece qualche domanda.

«Che mi dice della taglia?»

«Taglia?»

«Sì. Quanto era grande?»

«Dai vestiti si direbbe una ragazza di corporatura normale, tendente al piccolo. Le inserzioni dei muscoli sono poco marcate, il che significa gracile.»

Scorsi le fotografie finché non trovai quelle relative alle ossa della gamba.

«Potrei stimare la statura partendo dal femore e utilizzando il righello come scala. Ma non sarebbe una stima molto attendibile. Conoscete l'altezza delle quattro persone scomparse?»

«Dovrebbe risultare nei fascicoli. Se non c'è, vedrò di farmelo dire.»

«Fatto» disse Xicay.

Presi altri due flaconcini dallo zainetto, ne etichettai uno e scrissi le parole RESTI DEL FETO. Dopodiché con una pinzetta raccolsi le ossa dalle ascelle e dalla manica della camicetta, sigillai i flaconi e sigiai le etichette.

«Per i vestiti, faccio le foto standard?» domandò Xicay.

Annuii.

Mentre lo osservavo muoversi intorno al tavolino, mi venne un pensiero improvviso.

«Dove sono la tibia e le ossa del piede che erano nei jeans?» domandai a Galiano.

«Díaz ha sfoderato i suoi documenti anche per quelle.»

«E ha lasciato i jeans.»

«Quel tipo non saprebbe riconoscere un indizio nemmeno se gli pisciasse sui piedi.»

«Che cosa pensa di Lucas?»

«Il buon dottore non mi è parso entusiasta del suo incarico.»

«Ho avuto la stessa impressione. Crede che Díaz stia facendo pressioni su di lui?»

«Oggi pomeriggio ho un incontro con il signor procuratore distrettuale.» Tolse gli occhiali da sole dalla custodia e li infilò. «E ho intenzione di insistere molto sull'importanza della franchezza.»

 

Un'ora dopo varcai il cancello della sede della FAFG a bordo della mia automobile. Notai subito Ollie Nordstern sulla veranda, la schiena appoggiata a un palo, le mandibole impegnate a masticare una gomma.

Pensai di fare inversione e andarmene, ma il giornalista mi fu subito addosso come uno squalo su una macchia di sangue.

«Dottoressa Brennan. La donna sempre in cima ai miei pensieri.»

Recuperai lo zainetto dal sedile posteriore della mia Access presa a noleggio.

«Lasci che l'aiuti.»

«È emerso qualcosa, signor Nordstern.» Mi gettai una cinghia dello zaino sulla spalla, chiusi la portiera e lo superai per entrare nell'edificio. «Oggi non ho tempo per l'intervista.»

«Forse potrei dirle due paroline per un paio di minuti.»

Forse potresti annegarti in uno sputo.

«Non oggi.»

Elena Norvillo sedeva a uno dei molti computer che affollavano quello che un tempo era stato il salotto della famosa famiglia Mena. I suoi capelli erano raccolti in un foulard azzurro legato dietro la nuca.

«Buenos días, Elena.»

«Buenos días» mi rispose, senza alzare lo sguardo dallo schermo.

«¿Dónde está Mateo?»

«È fuori» rispose Nordstern alle mie spalle.

Girai intorno al tavolo di Elena, percorsi un corridoio su cui si affacciavano una serie di uffici e una cucina, e uscii in un cortile recintato da un muro di pietra. Nordstern mi seguì come un cagnolino.

Il cortile era coperto da una tettoia lungo il perimetro, aperto al centro. La parte sinistra era occupata da una piscina, che sembrava fuori posto come un idromassaggio in un ricovero per barboni. Il sole scintillava sulla superficie dell'acqua, proiettando su tutto e tutti un riverbero azzurrino.

Sotto un patio in fondo al cortile, si allineavano le postazioni di lavoro, ciascuna con uno scatolone vuoto sotto, e il contenuto dello scatolone sopra. Lungo il muro di pietra si ammassavano scatoloni ancora chiusi, dietro cui spuntavano le piante tropicali, ultimo residuo dei lussureggianti giardini Mena.

A una estremità della prima fila di computer, Luis Posadas e Rosa O'Reilly stavano esaminando dei resti. Rosa registrava i dati via via che Luis elaborava le misure con il calibro. Juan Corrales stava analizzando uno scheletro sospeso, con un frammento di ossa nella mano sinistra. Aveva un'espressione perplessa. Lo scheletro portava un cappellino floscio, di quelli con la calotta piatta e la tesa rivolta all'ingiù.

Quando uscii in cortile, Mateo alzò lo sguardo dall'unico microscopio del laboratorio. Indossava una tuta denim e una T-shirt grigia con le maniche tagliate. Il labbro superiore era imperlato di sudore.

«Tempe. Sono contento di vederti.»

«Molly come sta?» domandai, dirigendomi verso di lui.

«Nessuna novità.»

«Chi è Molly?»

Gli occhi di Mateo si spostarono da me a Nordstern, poi tornarono su di me e si strinsero in modo eloquente. Ma il segnale non era necessario. Non avevo nessuna intenzione di dare ascolto a quel fessacchiotto.

«Vedo che siete riusciti a incontrarvi» osservò Mateo.

«Ho già detto al signor Nordstern che oggi non è possibile.»

«Speravo che lei potesse convincerla altrimenti» disse Nordstern cercando di rabbonire Mateo.

«Ci vuole scusare?» Mateo sorrise al cronista, mi prese sotto il braccio e mi sospinse verso la casa. Lo seguii fino al suo ufficio.

«Mandalo via, Mateo.»

«Un servizio approfondito potrebbe tornarci utile.»

Mi indicò una sedia e chiuse la porta.

«Il mondo ha bisogno di sapere, e la fondazione ha bisogno di soldi.»

Mi lasciò il tempo di rispondere. E quando non lo feci, aggiunse: «Visibilità può significare finanziamenti, e protezione».

«Bene. Perché non ci parli tu.»

«L'ho già fatto.»

«Allora se ne può occupare Elena.»

«Ieri è stata tutto il giorno con lui. E adesso vuole te.»

«No.»

«Raccontagli qualcosa e vedrai che dopo ti lascia in pace.»

«Ma perché io?»

«Perché pensa che sei una tipa tosta.»

Gli lanciai un'occhiata che avrebbe potuto congelare la Valle della Morte a mezzogiorno.

«È rimasto impressionato da quelle storie di biker di cui ti sei occupata.»

Alzai gli occhi al soffitto.

«Trenta minuti?» Adesso era Mateo che cercava di rabbonire me.

«Che cosa vuole?»

«Qualche nota di colore.»

«Sa qualcosa di Molly e Carlos?»

«Abbiamo pensato che sarebbe meglio non parlarne.»

Mi tolsi un peluzzo dai pantaloni. «Le ossa nel pozzo nero?»

«No.»

«E va bene. Non più di mezz'ora.»

«Magari poi scopri che ti piace.»

Come una pustola in suppurazione, pensai.

«Adesso aggiornami sul caso della fossa biologica» disse Mateo.

«E il nostro Premio Pulitzer?»

«Può aspettare.»

Gli raccontai ciò che avevo scoperto alla centrale di polizia, tralasciando solo il cognome di Chantale Specter.

Ma subito Mateo disse: «André Specter, l'ambasciatore canadese. Roba grossa».

«Lo sapevi?»

«Me ne aveva parlato il tenente Gallano. È il motivo per cui gli ho permesso di tenderti quell'agguato il giorno in cui siamo rientrati da Chupan Ya.»

Non potevo essere infastidita. Anzi, era un sollievo che Mateo conoscesse le implicazioni di ciò che avrei dovuto fare nei giorni a venire.

Presi uno dei flaconi dallo zainetto e lo posai sul tavolo. Mateo lesse l'etichetta, osservò il contenuto, e mi guardò.

«Un feto?»

Annuii. «Avevo notato qualche frammento fetale nelle fotografie.»

«Età?»

«Devo dare un'occhiata al Fazekas e Kosa.»

Stavo parlando di un volume intitolato Forensic Fetal Osteology, osteologia fetale forense, la bibbia degli antropologi per ciò che riguarda lo sviluppo scheletrico prenatale. Pubblicato in Ungheria nel 1978 e da lungo tempo fuori catalogo, è un libro che i fortunati possessori custodiscono gelosamente.

«Ce n'è una copia in biblioteca.»

«Hai finito con il microscopio?»

«Quasi.» Mateo si alzò. «Ma avrò senz'altro terminato per quando ti sarai liberata di Nordstern.»

Rovesciai gli occhi al punto che rischiai di toccarmi il lobo frontale.

 

«Ieri ho sentito la sua mancanza» esordì Nordstern.

«Già.»

«Il señor Reyes mi aveva anticipato che sarebbe stata impegnata fino a sabato.»

«Senta, le concedo trenta minuti. Cosa vuole sapere?»

Ero passata sull'altro lato della scrivania, al posto di Mateo, e Nordstern sedeva al mio posto.

«Bene.» Il giornalista prese di tasca un piccolo registratore e me lo mostrò. «Le spiace?»

Guardai l'orologio mentre Nordstern giocava con i pulsanti.

«Bene» disse appoggiandosi allo schienale della sedia. «Mi dica che cosa è successo laggiù.»

La domanda mi colse di sorpresa.

«Non ne ha già parlato con Elena?»

«Mi piace raccogliere punti di vista differenti.»

«Ma sono fatti storici noti a tutti.»

Nordstern sollevò spalle, mani e sopracciglia.

«Da dove devo partire?»

Ripeté gli stessi fastidiosi gesti.

E va bene, stronzetto. Partiamo dalle violazioni dei diritti umani.

«Tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, molti Paesi dell'America Latina furono stretti in una morsa di violenza e di repressione. Gran parte delle atrocità furono perpetrate dai governi militari in carica nel totale sprezzo dei più elementari diritti umani.

«All'inizio degli anni Ottanta il clima si fece più democratico, e si diffuse l'esigenza di indagare gli abusi commessi nel recente passato. In alcuni Paesi le indagini portarono alla condanna dei responsabili; in altri, varie richieste di amnistia permisero ai colpevoli di evitare la punizione. In ogni caso ben presto fu chiaro che per portare alla luce i veri reati, era necessario affidarsi a collaboratori provenienti dall'estero.»

Nordstern sedeva di fronte a me come uno studente annoiato e disinteressato di fronte all'insegnante. Passai a qualcosa di più concreto.

«L'Argentina è un buon esempio. Quando questo Paese tornò alla democrazia, nel 1983, la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, la CONADEP, stabilì che quasi novemila persone erano scomparse durante il precedente regime militare; la stragrande maggioranza dei desaparecidos erano stati rapiti dalle forze dell'ordine, portati in centri di detenzione illegali, torturati e uccisi. I cadaveri venivano o gettati in mare dagli aerei o sepolti in anonime fosse comuni.

«I giudici iniziarono a ordinare le esumazioni, ma i dottori incaricati non avevano molta esperienza con i resti di scheletri umani e nessuna formazione archeologica; inoltre, a causa dei bulldozer usati per gli scavi, le ossa venivano rotte, perse, mischiate, addirittura lasciate nelle fosse, con il risultato che raramente le identificazioni erano possibili.»

Stavo dando la versione ultra sintetica.

«Molti di questi medici, poi, erano stati a loro volta coinvolti nei massacri, sia direttamente sia per omissione.»

Mi venne in mente un'immagine di Díaz. Poi di Díaz e del dottor Lucas alla Pensión Paraíso.

«Sicché, per tutte queste ragioni, si rese necessario stabilire un protocollo scientifico più rigoroso, e si decise di ricorrere a esperti che non fossero soggetti all'influenza dei presunti responsabili.»

«Ed è a questo punto che Clyde Snow entra in scena.»

«Precisamente. Nel 1984, la American Association for the Advancement of Science, o AAAS, inviò una delegazione in Argentina di cui faceva parte, tra gli altri, Clyde Snow. Quello stesso anno fu fondata la EAAF, Equipo Argentino de Antropologia Forense, che da allora non ha mai più cessato la sua attività.»

«Non solo in Argentina.»

«Vero. La EAAF ha collaborato con le organizzazioni per i diritti umani anche in Bosnia, a Timor Est, nel Salvador, in Guatemala, Paraguay, Sud Africa, Zimbab...»

«E i conti chi li paga?»

«I collaboratori vengono pagati con i fondi del bilancio generale dell'EAAF. In gran parte di questi Paesi le istituzioni per i diritti umani hanno risorse molto limitate.»

Tenendo presente l'obiettivo di Mateo, proseguii con quell'argomento.

«I fondi sono un problema cronico per chi si occupa di diritti umani. Oltre agli stipendi dei collaboratori, ci sono le spese di viaggio e la sistemazione in loco. I finanziamenti per una missione possono provenire interamente dalla EAAF, oppure - in Guatemala - dalla FAFG, O da organizzazioni nazionali e internazionali.»

«Parliamo del Guatemala.»

La questione fondi era chiusa.

«Durante la guerra civile che ha insanguinato questo Paese tra il 1962 e il 1996, tra cento e duecentomila persone sono state uccise o sono desaparecidos. Secondo alcune stime, un altro milione di persone è stato trasferito.»

«Erano quasi tutti civili.»

«Sì. La Comisión para el Esclarecimiento Histórico, o CEH, creata con l'Accordo di Oslo del 1994, concluse che il novanta per cento di tutte le violazioni dei diritti umani furono commesse dall'esercito del Guatemala e dalle organizzazioni paramilitari di sostegno.»

«I maya se la sono davvero presa nel didietro.»

Quell'uomo era rivoltante.

«La maggior parte delle vittime erano contadini maya, molti dei quali non avevano nessun coinvolgimento nel conflitto. I militari rastrellavano le campagne uccidendo chiunque fosse anche solo sospettato di essere un fiancheggiatore della guerriglia. Le province più colpite, Quiché e Huehuetenango, sono disseminate di centinaia di tombe senza nome.»

«Politica della terra bruciata.»

«Già.»

«E poi si sono dichiarati innocenti.»

«I governi che si sono susseguiti in Guatemala, per anni hanno negato perfino l'esistenza dei massacri. Quello attuale ha messo fine a questa farsa, anche se sarà molto difficile che qualcuno finisca in galera. Nel 1996 è stato siglato un accordo di pace tra il governo guatemalteco e una coalizione dei principali gruppi della guerriglia che ha messo formalmente fine al conflitto. Lo stesso anno è stata concessa l'immunità alle persone accusate di aver commesso abusi durante la guerra.»

«Allora perché tutto questo?» Nordstern comprese in un gesto tutto l'ufficio.

«I sopravvissuti e i parenti delle vittime hanno iniziato a far sentire la loro voce pretendendo l'apertura di un'inchiesta. E pur sapendo che non potevano aspettarsi nessuna azione penale contro i responsabili, hanno chiesto ugualmente che fosse fatta piena luce su quanto avvenuto.»

Ripensai alla bambina di Chupan Ya. E il tono asciutto e distaccato con cui stavo parlando di quei crimini mi fece quasi sentire dalla parte degli assassini. Tutte quelle vittime innocenti meritavano di essere ricordate con più partecipazione.

«Ma anche prima, all'inizio degli anni Ottanta, i gruppi che in Guatemala rappresentavano le famiglie delle vittime cominciarono a invitare qui le organizzazioni straniere, fra cui quelle argentine, per eseguire le esumazioni. Gli argentini, insieme agli esperti arrivati dagli Stati Uniti, formarono il personale locale e ciò portò alla creazione di strutture come la FAFG. Negli ultimi dieci anni, Mateo e il suo gruppo hanno condotto migliaia di indagini forensi e si sono conquistati un certo livello di indipendenza dagli organismi governativi.»

«Come a Chupan Ya.»

«Appunto.»

«Mi parli di Chupan Ya.»

«Nell'agosto del 1982, i soldati e le Pattuglie di Autodifesa Civile entrarono nel villaggio...»

«Al comando di Alejandro Bastos» mi interruppe Nordstern.

«Questo non lo so.»

«Continui.»

«Sembra che lei ne sappia molto più di me.»

Scrollata di spalle.

Ma che diamine. Ne avevo avuto abbastanza di quell'uomo. Per lui i massacri erano solo un articolo come tanti per il suo giornale. Per me erano molto, molto di più.

Mi alzai.

«Si sta facendo tardi, signor Nordstern. Ho del lavoro da sbrigare.»

«Chupan Ya o la fossa biologica?»

Lasciai la stanza senza rispondere.

 

8

 

La formazione di un neonato è un'operazione complessa, condotta con precisione militare. I cromosomi costituiscono il comando centrale, con squadre di geni semplici agli ordini di cromosomi ufficiali, a loro volta agli ordini di cromosomi più alti in grado.

All'inizio l'embrione è una massa indifferenziata. Poi un ordine parte.

Vertebrato!

Intorno al midollo spinale si formano le ossa segmentate; seguono braccia e gambe dotate di articolazioni e cinque dita ciascuno. Un cranio. Una mandibola.

L'embrione è un pesce persico. Una rana. Un geco.

I generali della doppia elica alzano la posta.

Mammifero!

Viviparo, omeotermo, eterodonte.

L'embrione è un ornitorinco. Un canguro. Un irbis.

I generali incalzano.

Primate!

Pollice opponibile, vista a tre dimensioni.

Sferrano l'offensiva finale.

Homo sapiens!

Materia grigia. Bipede.

Lo scheletro umano inizia a ossificare intorno alla settima settimana. Tra la nona e la dodicesima, si forma il germe dei primi dentini.

Sulle fotografie scattate il giorno del prosciugamento della fossa biologica avevo individuato quattro elementi costitutivi del cranio.

Lo sfenoide è un osso a forma di farfalla che concorre a formare le orbite e la base del cranio. Le grandi ali compaiono durante l'ottava settimana di vita fetale, le piccole ali seguono a distanza di una settimana.

Servendomi dello stereoscopio e di una griglia calibrata, misurai lunghezza e ampiezza. Con il righello ABFO come scala di riferimento, calcolai le dimensioni reali. Grande ala: quindici millimetri per sette. Piccola ala: sei millimetri per cinque.

Anche la formazione dell'osso temporale richiede un po' di tempo. La porzione piatta che costituisce la tempia e la parte più laterale dello zigomo compare durante l'ottava settimana di vita intrauterina. Quello che avevo davanti misurava dieci millimetri per diciotto.

L'anello timpanico esiste a partire dalla nona settimana, e per i successivi ventuno giorni si sviluppa formando tre scaglie ossee che si uniscono ad anello verso la sedicesima settimana. Poco prima che il neonato lasci la sua dimora uterina, l'anello si unisce all'apertura auricolare.

La particella che mi aveva insospettito sulla fotografia del bacino era un minuscolo anello timpanico. Anche se le linee di fusione erano ancora evidenti, la saldatura dei tre segmenti era solida. Il righello ABFO indicava che stavo esaminando proprio l'anello timpanico. Misurai il diametro, inserii i fattori di correzione, aggiunsi la cifra al mio elenco. Otto millimetri.

Dopodiché passai al flacone.

Una mezza mandibola in miniatura, con alveoli che non avrebbero mai più dovuto ospitare dei denti. Venticinque millimetri.

Una clavicola. Ventuno millimetri.

Quindi confrontai le mie misure con quelle riportate sulle tabelle del libro di osteologia fetale. Grande ala dello sfenoide. Piccola ala dello sfenoide. Squama temporale. Anello timpanico. Mandibola. Clavicola.

Secondo Fazekas e Kosa, la ragazza nella fossa biologica era incinta di cinque mesi.

Chiusi gli occhi. Quando la madre era stata uccisa, il piccolo doveva essere lungo tra i quindici e i ventitré centimetri e pesare un po' più di due etti. Poteva già sbattere le palpebre, afferrare, succhiare; aveva ciglia e impronte digitali, poteva sentire e riconoscere la voce della mamma. Se era una femminuccia, nelle minuscole ovaie aveva sei milioni di ovuli.

Mi sentii travolgere dalla tristezza, quando Elena comparve sulla porta e mi chiamò.

«C'è una chiamata per te.»

Non avevo voglia di parlare con nessuno.

«Un certo agente Galiano. Puoi prenderla nell'ufficio di Mateo.»

Ringraziai Elena, riposi le ossa nel loro flacone e salii al secondo piano.

«Cinque mesi» dissi, tralasciando i convenevoli.

Galiano non ebbe bisogno di spiegazioni. «Più o meno l'epoca in cui avrebbe dovuto dire la verità al paparino.»

«Il suo, o il fortunato donatore di sperma?»

«O il non donatore?»

«Fidanzato geloso?» buttai lì.

«Protettore arrabbiato?»

«Estraneo psicopatico? Le possibilità sono infinite. Ecco perché il mondo ha bisogno di investigatori.»

«Giusto stamattina ho investigato un po'.»

Aspettai.

«Gli Eduardo sono gli orgogliosi padroni di due boxer e un gatto. La famiglia di Lucy Gerardi ha un gatto e uno schnauzer. I De la Alda non sono amanti degli animali. E nemmeno l'ambasciatore e il suo clan.»

«E il ragazzo di Patricia Eduardo?»

«Una specie di furetto di nome Julio.»

«Quello di Claudia De la Alda?»

«Allergico.»

«I suoi uomini della Scientifica per quando riusciranno a esaminare i campioni?»

«Lunedì.»

«Il procuratore distrettuale che cosa le ha detto?»

Udii Galiano emettere un lungo sospiro con le narici.

«Il suo ufficio non rilascerà lo scheletro.»

«Possiamo avere accesso all'obitorio?»

«No.»

«Perché?»

«Il nostro amico avrebbe voluto davvero collaborare ed era distrutto per l'impossibilità di discutere il caso.»

«È una cosa tipica?»

«Nessun procuratore distrettuale mi ha mai legato le mani, ma con questo non avevo mai avuto a che fare.»

Riflettei qualche istante su quelle parole.

«Secondo lei che cosa sta succedendo?»

«O il nostro amico è un feticista dei protocolli, oppure qualcuno sta facendo pressione su di lui.»

«E chi?»

Galiano non rispose.

«L'ambasciata?» domandai.

«Che cosa pensa di fare?» Nella voce del tenente colsi un accento di cupa prudenza.

«Adesso?»

«No, per il ballo di fine anno.»

Cominciai a capire perché Ryan e Galiano erano diventati amici.

Guardai l'orologio. Le cinque e quaranta. La calma del venerdì sera era già scesa sul laboratorio.

«Ormai è tardi per iniziare a fare qualcosa qui. Penso che tornerò al mio albergo.»

«La passo a prendere tra un'ora.»

«Per cosa?»

«Caldos.»

Stavo per obiettare, ma poi vidi la seratina solitaria che mi aspettava nella mia stanza.

Al diavolo.

«Vestirò di blu.»

«Va bene.» Perplesso.

«Preferisco un mazzolino da polso.»

 

«Donate da un cittadino con il pallino per gli ortaggi.» Galiano mi porse due viole del pensiero appuntate su una fascetta elasticizzata blu.

«Donate?»

«La fascetta è a parte.»

«Broccoli?»

«Asparagi.»

«Carini.»

Ci avviammo a piedi verso il Café Gucumatz, accompagnati dal rumore delle auto e dei loro clacson. Un leggero rovescio serale aveva rinfrescato l'aria, e la città odorava di cemento bagnato, carburante, terra e fiori. Di tanto in tanto, ci veniva incontro un odore di tamales e chuchitos, ogni volta che superavamo il carretto di un ambulante.

Dividevamo il marciapiede con una folla di persone. Giovani professionisti che rientravano dopo il lavoro. Amanti dello shopping. Gaudenti del venerdì sera. La brezza sollevava le cravatte oltre le spalle e appiattiva le gonne contro le gambe e i fianchi. Sulle teste dei passanti, le fronde delle palme ondeggiavano con un lieve scricchiolio.

Il Gucumatz era un locale in stile techno-maya, con travi in legno scuro, piante di plastica e laghetto artificiale con ponticello. Tutte le pareti erano decorate da murales, che quasi sempre raffiguravano il quattrocentesco re del Quiché a cui il locale doveva il suo nome. Chissà come si sentiva il Serpente Piumato per l'implicita autorizzazione, ma tenni la domanda per me.

L'illuminazione era affidata a torce e candele, e una volta all'interno, si aveva l'impressione di essere in un'antica tomba maya. Mentre le mie pupille si dilatavano, un pappagallo gracchiava suoni in spagnolo e inglese. Imitato da un uomo in camicia bianca, pantaloni neri e grembiule.

«Hola, detective Galiano. ¿Cómo està?»

«Muy bien, señor Velásquez.»

«È da molto tempo che non viene a trovarci.»

La bocca di Velásquez era decorata da un enorme paio di baffi a manubrio che scendevano ai lati del viso e poi piegavano verso l'alto, come se volessero raggiungere le narici. Mi fece pensare a un re delle scimmie leonine.

«Sono stato molto occupato, señor.»

Velásquez scosse la testa con aria comprensiva.

«Ormai siamo in una situazione terribile. La delinquenza è ovunque. Ovunque. I cittadini di questa città sono privilegiati ad avere lei, tenente.»

Un altro triste scuotimento di testa, poi Velásquez mi prese la mano e ci premette sopra le labbra. I baffi mi fecero l'effetto di una paglietta di ferro.

«Bienvenida, señorita. Un amico del tenente Galiano è sempre un amico di Velásquez.»

Mentre mi lasciava la mano, sollevò entrambe le sopracciglia rivolto a Galiano, e gli schiacciò l'occhiolino.

«Seguitemi, por favor. Il mio tavolo migliore vi aspetta.»

Velásquez ci accompagnò fino all'ambito posto accanto al laghetto, si voltò e guardò Galiano con aria interrogativa. Il tenente indicò con un cenno della testa verso l'interno del ristorante.

«Si, señor. Certamente.»

Velásquez ci condusse fino a una nicchia ricavata in un angolo del locale, e di nuovo guardò Galiano. Il mio accompagnatore annuì. Entrammo nella nicchia e ci mettemmo a sedere. Un'ultima smorfia alla Groucho per il grande nemico del crimine, e il nostro ospite si ritirò.

«È stato sottile come il deretano di un babbuino» commentai.

«Le porgo le mie scuse per il machismo dei miei compatrioti.»

Nel giro di qualche secondo arrivò una cameriera con il menu.

«Beviamo qualcosa prima di iniziare?» propose Galiano.

Oh, sì.

«Non posso.»

«Eh?»

«Ho superato la mia quota.»

Galiano non indagò.

Ordinò per sé un Martini Grey Goose liscio e io chiesi una Perrier con lime.

Quando arrivarono i nostri drink, aprimmo i menu. In quell'angolo di oltretomba, l'illumuiazione da bassa era diventata inesistente, e non riuscivo quasi a distinguere le parole. Non capii il motivo per cui Galiano avesse deciso di farci sedere lì ma lasciai correre.

«Se non ha mai assaggiato i caldos, glieli raccomando.»

«Sarebbero?»

«È la zuppa tradizionale maya. Questa sera può scegliere tra anatra, manzo e pollo.»

«Pollo.» Chiusi il menu. Tanto non riuscivo a leggere.

Galiano scelse il manzo.

La cameriera intanto ci portò le tortillas. Galiano ne prese una, e mi passò il cestino.

«Gracias» dissi.

«Quando?» mi chiese, sistemandosi sulla sedia.

Dovevo aver perso qualche passaggio.

«Quando?» ripetei.

«Quando ha esaurito la sua quota?»

Colsi il collegamento, ma non avevo nessuna intenzione di raccontare la mia storia d'amore con gli alcolici.

«Qualche anno fa.»

«Amica di Bill Wilson?»

«No, non sono un membro della sua associazione.»

«Un sacco di gente si affida agli Alcolisti Anonimi.»

«In effetti è un ottimo sistema.» Sollevai il mio bicchiere. Le bollicine frizzavano tra i cubetti di ghiaccio. «Mi voleva parlare del caso?»

«Sì.»

Galiano sorrise e sorseggiò il suo Martini.

«Lei ha una figlia, giusto?»

«Sì.»

Pausa.

«Io ho un figlio. Di diciassette anni.»

Non commentai.

«Alejandro, ma lui preferisce Al.»

Galiano proseguì, ignorando la mancanza di reazioni da parte mia.

«È un ragazzo sveglio. Il prossimo anno andrà al college. Forse lo spedisco in Canada.»

«Alla Saint Francis Xavier?» Sperai di aver aperto una breccia nella sua inespugnabile sicurezza.

Galiano sorrise.

«È lì che le hanno raccontato la storia del Pipistrello?»

Quindi, quel giorno alla centrale, la mia allusione al suo soprannome non gli era sfuggita.

«Chi è stato?»

«Andrew Ryan.»

«Ay, Dios.»

Si appoggiò allo schienale e scoppiò a ridere.

«E dove è finito il vecchio Ryan?»

«È un tenente della polizia di Stato del Québec.»

«E usa anche lo spagnolo per il suo lavoro?»

«Perché? Ryan parla spagnolo?»

Galiano annuì. «All'epoca, ci piaceva commentare i membri del gentil sesso che passavano senza farci capire da nessuno.»

«Sicuramente parlavate della loro intelligenza.»

«No, delle loro doti di ricamatrici.»

Lo fulminai con lo sguardo.

«Erano altri tempi.»

Arrivò la cameriera, e ci concentrammo sui nostri caldos. Mangiammo in silenzio, mentre Galiano scandagliava il ristorante con lo sguardo. Se qualcuno ci avesse guardati, avrebbe pensato a una coppia di coniugi annoiati l'uno dell'altro. Poi ruppe il silenzio: «Quanto conosce il sistema giudiziario guatemalteco?».

«Poco, ovviamente; sono una straniera.»

«Però saprà che non sta lavorando in Kansas.»

Gesù. Quell'uomo era come Ryan.

«So delle torture e dei massacri, tenente Galiano. Ed è per questo che sono in Guatemala.»

Galiano prese un boccone di carne e indicò il mio piatto con la forchetta.

«Calda è più buona.»

Ripresi a mangiare, in attesa che Galiano continuasse il discorso. Non lo fece. Dall'altra parte del locale, di fronte alla nostra catacomba, una vecchia cucinava tortillas su un comal. La osservai preparare l'impasto, versarlo sulla piastra di coccio e metterlo sul fuoco. Le sue mani si muovevano senza sosta ripetendo sempre gli stessi movimenti, il suo viso era una maschera di legno.

«Mi spieghi come funziona il sistema.» La richiesta fu più brusca del previsto, ma l'evasività di Galiano cominciava a irritarmi.

«In Guatemala non ci sono i processi con la giuria. I reati vengono giudicati dai giudici di prima istanza, primera instancia si dice qui, più raramente da magistrati nominati dalla Corte Suprema. Questi giudici, che voi chiamereste "procuratori distrettuali", hanno il compito di raccogliere prove per incriminare e per assolvere.»

«Mi sta dicendo che agiscono contemporaneamente come difesa e come pubblica accusa?»

«Esatto. Una volta che il giudice incaricato delle indagini decide se ci sono gli estremi per istruire il processo, passa il caso a un giudice abilitato a emettere la sentenza.»

«Chi ha il potere di richiedere un'autopsia?» domandai.

«Il giudice di prima istanza. L'autopsia è obbligatoria in caso di morte violenta o sospetta. Ma se la causa del decesso può essere determinata da esami esterni, si evita l'incisione a Y.»

«Chi dirige gli obitori?»

«Sono sotto l'autorità diretta del presidente della Corte Suprema.»

«Quindi i medici legali in realtà lavorano per i tribunali.»

«Oppure per l'istituto nazionale per la sicurezza sociale, che qui si chiama Instituto Guatemalteco de Seguridad Social, o più rapidamente IGSS. Comunque, sì, i medici legali sono sotto l'autorità del potere giudiziario. In Brasile, invece, lo Stato gestisce istituti medico-legali che lavorano per la polizia. Qui da noi gli esperti forensi raramente hanno la possibilità di interagire con la polizia.»

«Quanti sono gli esperti forensi?»

«Una trentina. Sette od otto lavorano all'obitorio giudiziario di Ciudad de Guatemala, il resto sono sparsi per il Paese.»

«Sono qualificati?»

Galiano contò i requisiti essenziali sulla punta delle dita. Si fermò a tre.

«Devi essere cittadino guatemalteco per nascita, dottore in medicina, membro dell'associazione medico-legale.»

«Tutto qui?»

«Tutto qui. Che diamine... la USAC non richiede nemmeno un periodo di internato in medicina legale.»

Il tenente stava parlando della Universidad de San Carlos, l'unica università pubblica del Guatemala.

«Francamente, non capisco nemmeno perché ci sia ancora qualcuno che faccia questo lavoro. Il prestigio è uguale a zero e lo stipendio fa schifo. È già stata all'obitorio di Ciudad de Guatemala?»

Scossi la testa.

«Sembra un posto da Medio Evo.»

Raccolse un po' di salsa con un pezzo di tortilla, poi spostò la ciotola di lato.

«I medici legali lavorano a tempo pieno?»

«Alcuni sì. Altri lavorano per il tribunale per arrotondare. Soprattutto nelle zone rurali.»

Quando entrò la cameriera, gli occhi di Galiano si spostarono sulla sinistra. La ragazza raccolse i piatti, ci chiese se volevamo dolce e caffè, se ne andò.

«Com'è la procedura, quando viene trovato un cadavere?»

«Ascolti bene: le piacerà. Fino a una decina di anni fa, i morti venivano recuperati dai vigili del fuoco. Arrivavano sul posto, esaminavano il cadavere, scattavano le fotografie, portavano via. Quindi il comando dei vigili avvisava la polizia, e la polizia avvisava il giudice. Dopodiché gli investigatori raccoglievano le prove e le testimonianze. Alla fine entrava in gioco il giudice, sdoganava il cadavere e i vigili del fuoco lo portavano all'obitorio. Oggi per il trasporto si usano i mezzi della polizia.»

«Perché la procedura è cambiata?»